JUDITH
Dedicato a Rénée Saurel, Natsu e alle donne del club Mei Lanfan
Una sedia a sdraio bianca, un grande ventaglio, un bonsai, pettini di madreperla, una testa decapitata di legno, spilloni per trafiggerle gli occhi e la lingua (e per acconciarsi i capelli), una vestaglia rossa, una camicia da notte di seta bianca. Lo spettacolo isola ed esplora il campo di violenza-e-vulnerabilità immergendosi nell’oceano dell’erotismo luminoso e assassino attraverso la giustificazione della storia ebraica di Giuditta. Quel che in altri spettacoli affiora per lampi, qui è invece dipanato e dilatato, quasi meticolosamente analizzato e fuso nella precisione d’una sinfonia.
La storia, la favola, è tutta raccontata all’inizio. Alla fine, una graziosa coda del racconto lascia sospettare che il personaggio monologante non sia stata Giuditta, la protagonista, ma la serva che la rievoca (quella che vediamo in molti quadri celebri, spesso la figura più mossa e affascinante, la
serva che porta la testa di Oloferne nel suo paniere, seguendo quasi a passo di danza le orme della padrona un po’ rigida dopo il suo eroico exploit, nella quale alcuni pittori hanno dato forma alla reincarnazione in tono minore d’un’antica Menade). Per tutto il resto dello spettacolo, la favola di base no c’è più. Il vento passa liberamente a scompigliarne e disperderne la fronda. Vediamo le onde dei sentimenti e delle passioni confrondersi, cancellare i confini delle mappe morali, e soprattutto vediamo la letizia abbagliante e quasi purificatrice dell’orrore.
Attrice: Roberta Carreri
Regia: Eugenio Barba
Testi di Roberta Carreri ed Eugenio Barba
Primo spettacolo Agosto 1987, Holstebro, Denmark
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